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Giovedì 18 Aprile

IL LAVORO E’ … IL PANE DELLA TUA VITA

Cronaca: Martina Angius a diciannove anni si è mossa dalla Sardegna per lavorare nel cinema, ma oggi, a trent’anni, produce gioielli con una tecnica che è quasi unica al mondo. “Lasciato il set, ha iniziato a seguire come apprendista un vetraio e con lui ha scoperto il vetro e le vetrate.”

Martina crea gioielli in vetro che contengo fiori, petali e foglie. “E’ un lavoro certosino, mi sento apprezzata da orafi importanti per la fattura artigianale del mio lavoro”. Adesso vivo a Parigi.

“Io faccio in assoluto tutto da sola: gestisco il mio sito, l’e-commerce, le presentazioni a fiere e mercati, e realizzo pure le foto dei gioielli e i video. E’ molto faticoso: lavoro molto di più di chi ha un lavoro fisso e rischio molto di più. Ci vuole molta disciplina, ferrea e rigorosa, lavorare tutti i giorni senza che nessuno si aspetti nulla da te, ma quello che faccio è la mia passione, la mia vita.”


Oggi il mondo del lavoro è dato da tre istanze: la tensione di essere azienda, dalla quale deriva il successo o meglio, il fine di fare “cassa”; la seconda prospettiva è quella di assecondare il mondo del lavoro, attirandolo in una forma di vita di “allegro ménage” senza responsabilità; ed infine la visione di una vita che dia senso univoco a tutte le cose.

Mettere in piedi un’azienda, oggi, è una impresa di tutto rispetto. Non voglio parlare solo di artigiani, ma anche di piccole e medie imprese che si trovano nella condizione dei “cavalieri medievali” che facevano roteare la propria “durlindana”, tutti soli contro il drago con dodici teste. In effetti le teste sono i clienti, con sempre maggiori pretese, anche al di là di un rispetto umano, per proteggere la stabilità dei ritmi aziendali; le teste sono i fornitori che si devono difendere dalla concorrenza con ogni mezzo, più o meno lecito; le teste sono anche gli apparati burocratici, tutti tesi al rispetto delle leggi e alla soddisfazione dei bisogni comuni sempre più incalzanti, ma lungi da una concretezza sociale, dove le disparità spesso sono in evidenti contrasti come, ad esempio, la raccolta delle tasse e la difficoltà di riscuotere i propri diritti finanziari da parte dell’imprenditore.

Il secondo risvolto di questo mondo societario vuole scrutare e valutare il rapporto tra la persona disimpegnata ed il senso del lavoro. Per fortuna c’è un controcanto che invece racconta, per esempio, un moltiplicarsi di aziende che sposano il modello BCorp, che significa attenzione al fatturato senza perdere di vista territorio, collaboratori, fornitori, formazione e la restituzione di valori. Qualche pensatore ha iniziato a smascherare la Responsabilità Sociale d’Impresa, vista come un modello comunicativo, prima ancora che un modello etico e iniziano a “saltare” “vision” e “mission”. In questa narrazione, troppe aziende spesso hanno rappresentato il vero ostacolo all’innovazione.

L’idea di azienda è quella di concentrarsi sulle domande che i collaboratori fanno e che spesso restano disattese. Questa “purpose” rappresenta un nuovo modello culturale a cui le aziende devono tendere. La “tavola rotonda” dei CEO ha messo in luce l’importanza di parlare a tutti gli azionisti aziendali e dunque di concentrarsi non solo sul fatturato, ma anche sulla restituzione del valore. Oggi sarebbe un suicidio parlare in questi termini ad un collaboratore e ancor di più a generazioni che hanno fra le caratteristiche principali proprio quelle dell’unicità e della necessità di riconoscimento e feedback costante.

C’è una ricerca frenetica del Talento. Abbiamo trasformato le promesse che venivano espresse con definizioni semplici e chiare, come “selezione del personale” con parole che tradiscono tali promesse. “Talent Acquisition Manager” è una di quelle parole che tradiscono la promessa, perché chi seleziona un talento non è quasi mai un manager, sarebbe come far selezionare un fisico da un idraulico. E alla fine ci troviamo in azienda persone che continuano ad offrire tutto il loro potenziale, ma l’azienda non ascolta più. Prima di pensare al “significato”, diventa legittimo chiederci se siamo coerenti con ciò che comunichiamo.

Tutte queste problematiche, e tante altre, sono interessanti e sembrano soluzioni certe, ma non è così, perché le situazioni ed il pensiero dell’uomo sono sempre mutevoli, aggressive e dipendenti dall’interesse umano. In tempi sempre più moderni si scopre qualcosa di nuovo: l’uomo come risorsa umana e si parla anche di restituzione del valore come frutto di una partecipazione sociale di tutta l’umanità sul filo degli stessi diritti e doveri; tuttavia la coerenza è di pochi. Un passo oltre: Dio creò l’uomo “perché lavorasse il suolo da cui era stato tratto”, allora i due hanno la stesse leggi, stesse modalità di sviluppo e le stesse finalità. L’urlo profondo dell’umano non si chiama egoismo, ma condivisione comunitaria. Il lavoro è sempre un bene per tutti gli interessati e non una “furbata” per alcuni. Come la terra dà i suoi frutti, allo stesso modo l’uomo produce frutti che si consumeranno tutti insieme allo stessa tavola del pianeta. Quel soffio che è stato dato su quel pugno di terra è lo stesso che nella tua mente dà vita alla tua esistenza con il lavoro delle tue mani. Anche l’ebraico “Adam” ha la stessa radice di terra (rossiccia), tipica di quella che dà frutti e questi si ottengono con il lavoro. Che a lavorare ci voglia impegno, sudore ed una coscienza che rifletta tutti i sensi di verità, che portiamo nel nostro cuore, dovrebbe essere scontato, invece se ti chiamerai Caino, “il suolo non ti darà più i suoi prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra". Abele, la cui origine assira traduce con figlio, è l’erede della vita, che lo ha preceduto e di quella che lo ha seguito nei secoli, ottenendo la benedizione, soffio vita eterna, per tutti gli uomini: ”Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non ritornerai alla terra”.

Paolo Fiorani

Per comunicazioni posta@cernuscoinsieme.it