HO INCONTRATO … LA VITA

Qualche anno fa, con mia moglie, eravamo “visitatori”, ovvero incaricati dalla Parrocchia in occasione delle benedizioni natalizie. Quella sera, in quel condominio, su un pianerottolo, suonammo, ma nessuno rispose. Tutto fu di ordinaria amministrazione, ma ci accorgemmo che la porta era socchiusa. Spingemmo un poco e chiedemmo “permesso”. Il silenzio rimandava all’eco di quei muri spogli, ma improvvisamente una voce forte e sicura disse “avanti”.
In breve, raggiungemmo una stanza, l’unica illuminata, dove giaceva distesa una donna, un poco avanti negli anni, sola e pressoché immobile da anni. Una sua figlia veniva alla sera, prima di cena, appena uscita dal lavoro. Questa era l’unica visitatrice di quella casa e solo un prete della nostra parrocchia era gradito con piacere. Rimanemmo un bel po’, ma quello che ci stupiva era il senso della fortezza, che usciva dalle sue parole e da quel corpo martoriato, mentre a noi rimaneva la domanda: e la vita dov’è?



Di fronte a queste situazioni ci sentivamo come abitanti di un altro pianeta, certamente fortunato, ma che non può emarginare il malato, se non perdendo la propria dignità di persona. Tra noi e la signora ci sentivamo tanto lontani, eppure ci sentivamo appartenenti come due baccelli di una stessa verdura. Nella vita il peccato ha senso se coesiste con la grazia come anche la malattia alla salute e la vita con la morte, diversamente non saremmo degli umani. Alla fine riuscimmo a strappare qualche debole sorriso e noi ce ne andammo svergognati per tutti i nostri egoismi, le nostre pretese, quando non diventano accuse: la Vita dov’è?

Mentre racconto questi fatti, in filigrana, la memoria passa per una intervista fatta a Melazzini. Ricercatore della malattia SLA e lui stesso colpito. Quando gli fu diagnosticata con certezza dal “grande professore”, gli venne la tentazione d’andare in Svizzera per terminare la sua vita. Anche qui ci fu un don Silvano che gli regalò la bibbia con il segnalino sul libro di Giobbe e tra i due ci fu una anno di silenzio. E poi … pensiero e fede giocarono nella vita, capovolgendo le nostre certezze: visioni indiscutibili, ma come Giobbe:” ora i miei occhi ti hanno veduto. Perciò mi ricredo e mi pento sopra polvere e cenere". Giobbe fu reintegrato in tutti i suoi beni materiali ed affettivi, e la vita dov’è?

E’ opportuno per noi rivedere la vita dell’infermo per poterla comprendere e condividerla, nelle cure di ogni genere, secondo il bisogno dell’ammalato. I sofferenti stanno, tante ore ogni giorno, da soli ed il loro desiderio è quello di parlare, per non sentirsi “scartati” dalla società e più ancora dai familiari. I malati sono una persona con una malattia e desiderano ascolto”. La prima crisi del degente è dovuta al pensiero “che vita potrà essere la mia”? ma questo è un pensiero che si allunga su un futuro che non conosciamo, mentre la non conoscenza crea inutili castelli. Quando l’infermo è seguito con interesse dai familiari, o dai vicini, con sentimenti di servizio, allora la vita viene vissuta con qualità e grande dignità, la qual cosa porta a pensieri sereni che fanno dimenticare il desiderio di togliersi la vita. Il paziente porta dentro la speranza, come strumento di vita, questo è anche un desiderio di autonomia che può superare col supporto degli altri, incontrando maggiore prossimità ed avendo più accesso alle cure sociali. E la vita dov’è?

Il paziente, quando si sente preso in cura da una persona, gusta anche il supporto degli altri e non si dispera pur nella sua infermità inguaribile perché può ancora affermare:” Io sono qui. Se accudito con attenzione, l’ammalato trova la sua normalità, anche se c’è chi l’aiuta a lavarsi, a vestirsi, a portare a termine pratiche mediche interminabili … allora si sente collocato in un ambiente di persone che condividono, che amano, che sanno servire senza far pesare nulla. Ora la vita rifluisce in una autonomia diversa, ma sempre aperta ad una ragione che, dopo una giornata di pioggia, ridona i colori della gioia. Il professore citato ha detto:” Di inguaribile c’è solo la mia voglia di vivere”.

Paolo Fiorani

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