UNA VITA …PERSA?

Questa è la cronaca:

Siamo a Milano, viale delle Forze Armate 312. Ore 21 circa. Un cittadino iracheno, irregolare sul territorio italiano, entra nel Carrefour per fare la spesa senza pagare il conto. Il vigilantes lo blocca e "inizia a sclerare", e "preso il paletto divisorio del supermercato lo usa per colpire la testa della guardia giurata". L'iracheno scoperto, se la dà a gambe e si infila nel parco delle Cave. I carabinieri, avvertiti dal vigilantes, si mettono sulle sue tracce. "Dopo pochi istanti" viene acciuffato, "capisce di essere stato scoperto" e invece di arrendersi aggredisce pure i militari. L'immigrato, "proveniente dalla Germania", viene denunciato per rapina impropria e resistenza a pubblico ufficiale. Il suo curriculum dice che è un clandestino e che si trova a bighellonare per la città meneghina. Il giudice non l’ha condannato perché il reato era il furto di un paio di bottiglie e gli agenti?

Commento

Di queste storie i giornali sono pieni e purtroppo molte altre sono peggiori: pluriomicidi, bande a mano armata, rapine di bambini, donne rese schiave per la prostituzione, commercio di armi, droga a fiumi per l’annientamento della personae tanto altro di quanto più innominabile e nefasto ci possa essere sulla faccia della terra, ma poi …. ?

E poi il carcere. Le testimonianze della vita in carcere sono molte e diverse. Due filoni di considerazioni testimoniano le condizioni di vita, che vanno dal dolore causato dalla mancanza di affettività a quelle più infernali del trattamento carcerario, ma tutte comportano dolori atroci, povertà umana di sentimenti, di formazione, di visioni errate della vita, di prese di posizione erronee senza alcun vaglio della ragione, insomma si verifica la distruzione della persona erimangono le macerie di un essere umano, che lasciano attoniti gli sguardi di una umanità, pensata per la bellezza del creato. Dopo qualche anno di detenzione, però, come nella parabola del figliol prodigo che“ritornò in sé stesso”, i giovani capiscono che “non rifarei gli stessi errori”, altri dicono:”i familiari mi avevano avvisato, ma io sono andato dritto per la mia strada e mi sono cacciato nei guai più seri”, altri ancora: “non avevo coscienza, facevo quello che diceva il capo del “branco” senza discutere”, mentre quelli che hanno qualche anno in più ed hanno un passato coniugale notano:” vedo i figli ogni tanto e quindi non ho nessuna parte con loro”, altri, le mamme in genere: ”vorrei giocare in carcere con i miei figli”, altri ancora: “mi spiace non accarezzare i miei genitori”.

Se ci immergiamo in questi contesti di vita, scopriamo che dietro a questi misfatti ci sono degli uomini e delle donne che non possiamo dimenticare, ma che sono i mendicanti della vita; sotto queste situazioni emerge, dai loro cuori, una domanda implicita: che cos’è la nostra vita? Perché non abbiamo pensato prima? E qui c’è un punto e a capo.

In Sicilia c’è stata una scuola media superiore, che ha mandato, i ragazzi di una classe, a visitare i carcerati, a tre per volta, allo scopo di raccontare le storie dei detenuti incontrati. Gli studenti si sono dimenticati di dare un giudizio sul loro operato o di bollarli a fuoco, anzi, hanno visto un’umanità spezzata e a questa hanno teso una mano, perché si potessero rialzare; in loro è prevalsa la misericordia al castigo, perché questo, in quel tempo di pena, gridava ogni istante un dolore purificatore. Rileggendo le loro storie non senti la crudeltà dei fatti, ma il singhiozzo di un dolore che forse non avrà fine in questa vita ed una piaga che non sarà mai chiusa, come anche in quei casi del progetto Sicomoro, portato avanti da alcuni membri del Rinnovamento nello Spirito, che prevede condannati e parenti delle vittime impegnati in un cammino di pacificazione, uno di fronte all’altro.

Non è così per tutti, anche perché non sono pochi i malati psichiatrici per i quali la ricucitura è assai più complicata e talvolta impossibile, ma come progettare una rieducazione umana di questa malattia del delitto? In molti carceri ci sono tante iniziative di riabilitazione attraverso i più svariati sentieri, quali il lavoro interno che costituisce la forma più efficace di “risurrezione”, ma non sempre è facile costituire una gestione organizzata e duratura. Altra modalità di ricupero è la scuola per i più giovani che possono anche ad arrivare ad una laurea, grazie ad insegnanti che prestano la propria opera gratuitamente e questi non si trovano facilmente. Ci sono anche forme di socializzazione guidate da un dottore o da un psicologo o da un educatore, all’interno di un carcere, ma il tempo in cui restano in cella con altri detenuti, i rumori dell’acqua, le grida delle persone, gli interventi dei secondini e altro, non permettono un tempo di raccoglimento o di una distesa conversazione con qualche persona qualificata.

Quello che meraviglia è quello che, dopo tanti secoli, non siamo ancora riusciti a pensare a strutture idonee per la riabilitazione degli individui, anziché puntare sull’afflizione per l’espiazione della pena. Non credo che ci sia una correlazione tra il castigo ed il fatto commesso, main mezzo ci sta una umanità che deve essere educata con metodi intelligenti, anche se talvolta pesanti, ma pur sempre ricostitutivi dell’essere umano.

Occorre rinnovare complessi edificabili con concezioni diverse, aperte al respiro dell’uomo; inventare situazioni culturali nuove, in particolare, per chi deve passare tutta la vita in carcere; suscitare e dirigere relazioni umane onorevoli, che aiutano a scoprire le dimensioni dell’uomo in un reciproco rispetto; sostenere qualsiasi iniziativa per la promozione e la dignità dei valori umani.

Certo è che, se non tutti, ma molti, educassero i propri figli ad una sana crescita in “età e sapienza” il carcere non sarebbero sovraffollato di gente, come anime perse in un inferno, dove una buona medicina può essere quella di un condannato all’ergastolo, Danner Darcleight che vive in America, il quale ha scritto nel suo diario “le confessioni di un detenuto per omicidio: la noia quotidiana tra manette, violenze e libri:” nella vita dietro alle sbarre solo l’amore mi ha salvato”.

Paolo Fiorani