“NON SEMPRE LA PRIMA PAROLA È QUELLA DEFINITIVA O È QUELLA CHE CONTA”

Domenica 11 settembre – “Per chi è peccatore” – scrive il prevosto – il Vangelo invita a “non disperare, perché si può sempre rimediare a parole e atteggiamenti sbagliati, con la conversione del cuore”

Siamo nelle domeniche dopo il martirio di san Giovanni il Precursore ed è ancora la figura del Battista che ci aiuta a comprendere meglio la novità portata da Gesù in mezzo agli uomini, con il suo insegnamento e ancor più con la sua persona. Lo stesso Gesù parla di Giovanni – “Giovanni venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto, i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto” – ma in realtà si riferisce a se stesso e al suo annuncio.

Gesù si sta rivolgendo ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo – che hanno messo in discussione la sua autorità – e si domanda: perché questi mi rifiutano, come hanno rifiutato Giovanni, mentre i pubblicani e i peccatori hanno accolto la sua predicazione e ora accolgono me? Questo interrogativo di Gesù si ripercuote anche nella primitiva comunità cristiana e lungo tutta la storia del cristianesimo, compreso la nostra vita presente: perché il Vangelo è stato rifiutato dalla gran parte di Israele, il popolo primogenito dell’alleanza, e invece è stato accolto da molti pagani? Perché molti credenti – ancora oggi – vivono da increduli, mentre i peccatori e i non praticanti a volte hanno più fede di loro? Questi sono gli interrogativi che si pone Gesù, davanti all’accoglienza e al rifiuto verso la sua persona: è stato accolto da Levi e Zaccheo, dai pubblicani, dalla donna peccatrice, dal ladro sulla croce; ma rifiutato dai capi dei sacerdoti, dagli scribi, dai farisei, dal giovane ricco. Sono anche gli interrogativi che ci poniamo noi oggi, davanti alla nostra fede e alla nostra incredulità.

Le pagine della Scrittura – il cantico della vigna proposto da Isaia, la riflessione di Paolo sul senso della legge e la parabola di Gesù sui due figli – ci vengono in aiuto. Anzitutto Isaia mette al primo posto la cura di Dio verso il suo popolo, come segno di amore e di attenzione nei riguardi dell’umanità. Dio è come un uomo innamorato della propria vigna e fa di tutto per poter dimostrare il suo amore. Eppure non ottiene alcun frutto: si attendeva “giustizia” (mishpàt) ma ottiene “spargimento di sangue” (delitto, mispàt); cercava “rettitudine” (sedaqàh) e riceve “grida di oppressi” (grido, sehaqàh). E’ la storia di Gerusalemme, ma di ogni rifiuto verso l’amore e la cura di Dio.

Anche Gesù ricorda questa storia attraverso la parabola dell’uomo e dei suoi due figli che, invitati a lavorare nella vigna, dicono una cosa e ne fanno un’altra. Il primo figlio – l’umanità intera – risponde con un rifiuto (il peccato, la mancanza di fiducia nei riguardi del padre), ma poi si pente (la conversione). Il secondo – l’Israele di Dio – accetta subito la proposta (il dono dell’alleanza), ma poi non si mantiene fedele. Questa parabola ci ricorda la necessità di conformare le parole ai fatti (tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, dice un detto del popolo). Ma non è qui il suo cuore. Gesù sottolinea, in modo particolare, la necessità della conversione. Qui sta la differenza nell’atteggiamento dei due figli di fronte al padre; qui sta il cuore della parabola. E’ questa una parola di speranza e insieme un invito alla vigilanza: ci ricorda che non sempre la prima parola è quella definitiva o è quella che conta. Ciò significa, per chi si crede giusto, di stare in guardia, perché potrebbe venire meno alla parola data. Per chi, invece, è peccatore, è un invito a non disperare, perché si può sempre rimediare alle parole e agli atteggiamenti sbagliati, attraverso la conversione del cuore.

E’ proprio questo atteggiamento della “conversione” che permette ai pubblicani e alle prostitute – cioè ai peccatori – di passare avanti nel regno di Dio. E’ una questione di “precedenze” e il codice della strada inaugurato dal Vangelo è diverso da quello in vigore tra gli uomini, dove spesso vale la regola del più forte. I pubblicani e le prostitute non passano davanti ai giusti perché sono peccatori, ma perché si convertono. Ed è quello che Paolo afferma con forza nella lettera ai Galati: noi tutti – Giudei per nascita o pagani – abbiamo creduto in Cristo Gesù ed è questa conversione a lui a rendere nuova la nostra vita, come quella di Cristo: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me”. Ed è questa una delle più belle definizioni del cristiano, di colui che si è convertito a Gesù e vive una esistenza nuova, anzi, lascia che sia Gesù a vivere in lui.

Non basta affermare di essere in ricerca di Dio, per ritenersi credenti e poterlo poi trovare. Occorre cercarlo veramente, con atteggiamenti concreti di conversione. Forse noi stessi, in quanto credenti e (più o meno) praticanti, siamo disposti a rallegrarci del fatto che i peccatori ci precedono nel regno di Dio, nella speranza che in quel numero possiamo esserci anche noi. Ma se continuiamo a vivere una giustizia solo apparente, senza essere disposti a modellare quotidianamente la nostra esistenza sulle esigenze del Vangelo, alla fine non ci sarà bisogno di alcun foto-finish per stabilire chi è arrivato primo, perché senza conversione rimaniamo tutti al palo.

Don Ettore Colombo
Responsabile della Comunità pastorale “Famiglia di Nazaret”

Per leggere il testo integrale delle lettura della Messa di domenica 11 settembre 2016, II Domenica dopo il martirio di san Giovanni il Precursore (Isaia 5,1-7; Galati 2,15-20; Matteo 21,28-32), cliccare qui

Cernusco sul Naviglio, 11 settembre 2016