“MOLTO DELLA FEDE DEGLI ALTRI DIPENDERÀ DAL MODO CON CUI ANCHE NOI VIVIAMO IL NOSTRO ESSERE CRISTIANI”

“Molto della nostra fede dipende (dalla testimonianza di Giovanni Paolo II, ndr), molto della fede degli altri dipenderà dal modo con cui anche noi viviamo il nostro essere cristiani: se già Tommaso ha fatto fatica a credere davanti alla gioia e all’entusiasmo di chi pure aveva visto il Signore, come potranno credere in noi se non vedranno sul nostro volto questa gioia di essere discepoli e amici di Gesù?”

Anche noi, in questo momento, stiamo vivendo la stessa esperienza che hanno sperimentato i primi discepoli di Gesù quando lo hanno visto risorto dai morti. La pagina del vangelo di Giovanni, infatti, ci ha ricordato che “la sera di quello stesso giorno, il primo della settimana”, mentre i discepoli erano radunati insieme, “venne Gesù” in persona e “stette in mezzo a loro”. Ma ci ha anche detto che ciò avvenne “otto giorni dopo”, mentre i discepoli erano nuovamente insieme. Come comunità cristiana, come singoli discepoli di Gesù, ci ritroviamo “il primo giorno della settimana” per fare esperienza della presenza di Gesù risorto tra noi, con il dono dell’Eucaristia. E lo facciamo ancora “otto giorni dopo”, di settimana in settimana, perché ci è impossibile ormai vivere senza questa presenza del Signore. Ma siamo davvero capaci di riconoscerlo? Abbiamo fede in lui? Ed è possibile avere fede in lui?

Gli stessi racconti della risurrezione presenti nel vangelo di Giovanni ci vengono in aiuto per rispondere a queste domande, presentandoci cinque diverse modalità di fede:

- c’è la fede schietta del discepolo amato che, entrando nel sepolcro e non trovando il corpo di Gesù, ma solo le bende, “vide e credette”;

- c’è la fede della Maddalena, che vede Gesù davanti a sé, ma non lo riconosce, e per questo ha bisogno di voltarsi, di convertirsi, per arrivare a credere;

- c’è la fede dei discepoli che, radunati insieme nello stesso luogo, vedono Gesù e, pieni di gioia, credono in lui e da lui sono inviati in missione;

- c’è la fede di Tommaso, che vuole vedere per credere e, alla fine, arriva a pronunciare una delle più alte confessioni di fede su Gesù, chiamandolo con gli stessi nomi divini: “Mio Signore e mio Dio!”;

- e, infine, c’è la fede di ciascuno di noi, di tutti coloro che sono venuti dopo e che, pur non avendo visto il Signore, credono in lui e per questo possono dire di essere altrettanto beati.

Noi, infatti, crediamo nel Signore non perché lo abbiamo visto, ma perché ci fidiamo della parola di coloro a cui si è manifestato. La nostra fede si fonda non sul vedere, ma sull’ascoltare la parola dei testimoni, come ben sottolinea Giovanni al termine del suo vangelo: “Questi (segni) sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome”.

Nelle altre due letture della liturgia di questa domenica – II domenica “di Pasqua”, e non “dopo Pasqua” – siamo messi di fronte ad alcuni di questi testimoni autorevoli che ci permettono di credere in Gesù: Pietro e Giovanni, nel libro degli Atti, e poi Paolo nella lettera ai Colossesi. Tutti questi testimoni vivono la propria adesione al Signore a costo della vita – sono perseguitati, catturati, messi in carcere – e la esprimono con formule sintetiche che valgono anche per noi. Gli avversari di Pietro e di Giovanni rimangono allibiti per la loro franchezza nel parlare e riconoscono che questi uomini erano “quelli che erano stati con Gesù”: è una delle definizioni più belle di chi è il cristiano.

Paolo descrive la vita cristiana come una partecipazione alla pienezza di vita di Gesù: “E’ in lui che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità, e voi partecipate della pienezza di lui”. Ma come ci è possibile vivere una esistenza cristiana così? Proprio attraverso il dono dell’Eucaristia e della Messa domenicale.

Incontro tanti cristiani che dicono di credere “a modo loro”, e non metto in dubbio la loro buona fede. Ma con la stessa franchezza di Pietro e di Giovanni mi sento spinto a dire che se viene a mancare il contatto vivo con il Signore crocifisso e risorto che sta in mezzo a noi, alla sua Chiesa, nel dono dell’Eucaristia, con molta difficoltà possiamo dirci realmente cristiani, e ancora con maggior difficoltà possiamo esserlo.

Per questo siamo contenti di poter partecipare all’Eucaristia, nel giorno del Signore, come avviene tutte le volte che ci raduniamo nel suo nome. La nostra gioia, poi, è ancora più profonda perché proprio in questa domenica, 11 anni fa - era la Domenica della Divina Misericordia, istituita da Giovanni Paolo II durante il suo pontificato - e proprio in quel giorno questo Papa, oggi proclamato santo, faceva il suo ingresso nel regno dei cieli, dopo aver dato testimonianza con tutta la sua vita al Signore Gesù, il redentore dell’uomo. Molto della nostra fede dipende da questa testimonianza e molto della fede degli altri dipenderà dal modo con cui anche noi viviamo il nostro essere cristiani: se già Tommaso ha fatto fatica a credere davanti alla gioia e all’entusiasmo di chi pure aveva visto il Signore, come potranno credere in noi se non vedranno sul nostro volto questa gioia di essere discepoli e amici di Gesù?

Don Ettore Colombo
Responsabile della Comunità pastorale “Famiglia di Nazaret”

Per le letture della II Domenica di Pasqua “in Albis depositis”, Atti 4,8-24°; Colossesi 2,8-15; Giovanni 20,19-31, cliccare qui

Cernusco sul Naviglio, 3 aprile 2016