III Domenica dopo Pentecoste
C’è un termine che percorre i tre testi della liturgia: peccato. Il nome Gesù - Jahvè salva - indica la missione di questo bambino: salvare il suo popolo dai suoi peccati. E Paolo ricorda che tutti gli uomini sono coinvolti nella condizione di peccato e che il peccato abbonda nella storia umana. Fin dalle origini, come racconta il notissimo testo della prima colpa presso l’albero del giardino. Dovremmo allora dedicare la nostra meditazione al peccato. Eppure un altro termine percorre le tre pagine: salvezza o grazia. Anzi grazia sovrabbondante, quasi alta marea che sommerge la colpa. La discendenza della donna vincerà il serpente. Ma allora: parlare di peccato o annunciare la grazia? Non c’è dubbio che decisivo sia l’annuncio della salvezza e della grazia sovrabbondante. Eppure non è affatto inutile sostare un momento su questa parola, peccato, e sull’esperienza che indica. Sono significative, nella tradizione biblica, le immagini con le quali viene indicata l’esperienza del peccato: la freccia che manca il bersaglio, il gregge che smarrisce il sentiero e soprattutto la rottura del vincolo d’amore che stringe Dio al suo popolo. Quante volte il peccato è indicato come adulterio, non perché questo comportamento sia il primo e più importante peccato - è certamente grave colpa - ma perché in ogni peccato c’è il venir meno da parte dell’uomo al rapporto di fedeltà e di amore irrevocabile di Dio per la sua creatura. Prima è l’iniziativa di Dio che vuole stringere con l’uomo un vincolo di alleanza, prima è il suo amore che appunto ci precede e ci raggiunge proprio quando noi siamo distanti. Per questo ogni giorno dovremmo avere sempre sulle labbra e nel cuore la parola della riconoscenza, della gratitudine perché il Signore è bontà e misericordia. Ma questo vincolo di alleanza non si impone alla libertà dell’uomo, interpella la libertà dell’uomo perché accolga, nella libertà.
Dio bussa alla porta…
Una brevissima parabola del libro dell’Apocalisse esprime questa verità con efficacia: “Sto alla porta e busso. Se uno mi apre entrerò e faremo cena insieme” (30). Da parte di Dio è l’iniziativa spontanea di avvicinarsi e bussare alla nostra porta. Ma la porta può restare chiusa, l’incontro può non avvenire perché l’appello è rivolto ad un essere libero e la risposta non può che essere libera. L’esperienza del peccato, ovvero del rifiuto, diremmo della porta chiusa nonostante la richiesta di entrare di questo Dio che vorrebbe esser accolto, ci svela che la nostra più profonda qualità è appunto la libertà. L’esperienza del peccato è possibile solo in un uomo libero, responsabile di sé. Ad un robot, ad un burattino o ad un automa non possiamo imputare colpe. L’uomo che fa l’amara esperienza del peccato è un uomo libero, non programmato, non rigidamente determinato dall’ambiente, dalle abitudini, dai conformismi. Battersi il petto dicendo: mea culpa, mea culpa… vuol dire riconoscere la propria libertà. Ma il peccato ci rivela che i volto di Dio è quello di un alleato, di un amico, di qualcuno che ci ama incondizionatamente. Solo chi ha scoperto il volto di Dio carico di amore e a questo amore si sottrae può essere detto peccatore, ma nonostante tutto, amato, diremmo inseguito da questo Dio che proprio per questo si è fatto Dio con noi.
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