CON LE UNIONI CIVILI CI SI PREOCCUPA SOLO DEI DIRITTI DI ALCUNI
Don Paolo Gentili, direttore dell'Ufficio nazionale per la pastorale familiare della Cei, riflette sul disegno di legge Cirinnà quasi in dirittura d'arrivo nell’’aula del Senato.
Il disegno di legge Cirinnà sulle unioni civili approda all’Aula al Senato il prossimo 26 gennaio. Anche se la maggioranza appare spaccata, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi accelera sostenendo che il provvedimento va approvato senza ulteriori ritardi. Tra i nodi nevralgici la “stepchild adoption” che consentirebbe alle coppie omosessuali l’adozione da parte di uno dei partner del figlio del compagno, rischiando così di aprire il varco alla pratica dell’utero in affitto.
Qual è la posizione della Chiesa italiana? Lo chiediamo a don Paolo Gentili, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della famiglia della Cei. “Rispetto alla bozza iniziale - spiega -, nell’iter legislativo il testo ha fatto dei passi interessanti nella distinzione tra matrimonio fra uomo e donna e unione civile definendo quest’ultima ‘formazione sociale specifica’, ma nella proposta di legge che arriverà a Palazzo Madama vi sono diversi rimandi al diritto matrimoniale, contraddicendo di fatto questo caposaldo preliminare”. Per don Gentili l’equiparazione delle unioni gay al matrimonio è “inopportuna e inutile. Non si capisce perché si debba ‘liquefare’ ulteriormente il matrimonio”.
“La stepchild adoption è inammissibile” per il direttore dell’Ufficio Cei, che aggiunge: “Papa Francesco si è più volte espresso su questo punto precisando che ogni bambino ha diritto a un papà e ad una mamma”. “Il rischio vero – avverte – è quello di una legalità che si allontani dalla realtà fatta di famiglie composte da un papà, una mamma e dei figli, che nel nostro Paese non trovano, rispetto ad altri Paesi europei, adeguato sostegno. La denatalità è spaventosa e le previsioni sulle nascite sono catastrofiche: nel 2020 si va verso percentuali di 0,8 figli per coppia. Anche gli immigrati, arrivati alla seconda o alla terza generazione, si adeguano a questo trend”.
“Non abbiano nulla contro il riconoscimento dei diritti individuali delle persone omosessuali, come poter andare a visitare il partner in ospedale o in carcere o decidere quale parte di patrimonio lasciargli in eredità – assicura -, ma un conto è un Paese che mira al futuro e quindi investe sulla famiglia reale; un altro è un Paese che si preoccupa solo dei diritti di alcuni gruppi”. L’auspicio è allora che “la politica ascolti di più la famiglia reale, quella che quotidianamente incontriamo nei diversi luoghi della vita vera e che, senza troppe chiacchiere, si fa concretamente carico di bambini, anziani e malati”. Una “miopia”, quella della classe dirigente, “che può essere curata solo affacciandosi alla finestra della realtà”.
A che cosa si sente interpellata la Chiesa italiana? “Più che creare singoli eventi, che di per sé possono anche essere importanti, questo scenario ci chiede, come insegna Papa Francesco, di avviare e curare un processo che sappia risvegliare nei politici uno sguardo globale sulla realtà. La Family card può essere un passo, ma è insufficiente. E’ tutta l’impostazione da capovolgere: da un’attenzione concentrata su piccoli gruppi alla capacità e alla volontà di rispondere al sentire e alle esigenze dei milioni di famiglie che costruiscono e sostengono il Paese”. (Giovanna Pasqualin Traversa, per Agenzia SIR, 6 gennaio 2016)
Cernusco sul Naviglio, 11 gennaio 2016