LA RICCHEZZA DELLA POVERTA’

Anna Mazzoleni dice di aver conosciuto la povertà fin dalla sua nascita. Correva infatti l’anno 1943 quando è venuta alla luce; a quel tempo, la guerra pulsava nelle viscere del mondo e nella sua famiglia, e avere lo stomaco vuoto rappresentava la normalità: «La mia famiglia era abituata a non avere nulla. Riuscivamo ad andare avanti solo perché c’era una signora, che tutte le sere, si presentava da noi con un pentolino di brodo, e ogni tanto addirittura con un pezzetto di carne». Suo padre muore in un incidente in fabbrica. «A quel punto fu peggio di prima. Ora Anna ha undici anni quando inizia a lavorare come bambinaia, poi viene assunta alla clinica Gavazzeni, dove lavora e studia contemporaneamente. Il colpo d’ala nella vita avviene nel ‘66, grazie a don Vavassori, “che sarebbe andato  ad aprire una casa per gli orfani in Bolivia”. Io non ci sono stata tanto a riflettere. Ci accordammo e lo raggiunsi due mesi dopo. Mi accorsi che ero scappata dalla povertà per finire in una povertà ancora più radicale, più profonda. E in mezzo a quella povertà, ho vissuto gli anni più felici della mia vita». Anche il futuro marito di Anna, come lei, non ha niente. Il matrimonio è durato trentuno anni». Dalle nozze nascono tre figli, che crescono abituati a vivere nella povertà e sotto il fondamentale precetto della condivisione prima di tutto. La vita sfila via liscia, fino a una mattina del 2001, quando il marito di Anna esce a riscuotere la pensione, per non tornare mai più con me. «Vivo felice, voglio bene alle persone. Sono tornata in Italia e ho collaborato col centro Caritas in quella parrocchia e al Patronato San Vincenzo. «La povertà mi è sempre piaciuta, ne ho sempre goduto. Ho scoperto che più cose ci mancavano, più fatica si faceva, e più eravamo contenti”.

Allora Giobbe si alzò e si stracciò il mantello; si rase il capo, cadde a terra, si prostrò e disse: »Nudo uscii dal grembo di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto,
sia benedetto il nome del Signore!».

Le prime parole che pronunciamo, da bambini, sono così istintive, che non potremo mai dire che le abbiamo imparate; infatti il bambino che desidera qualcosa, allunga il braccino e, più tardi dirà ”è mio”. È inscritta nell’umanità la brama di possedere; certo è che, in un bambino, l’istinto di conservazione lo spinge ad una gestualità e poi a qualche monosillabo, pur di ottenere, ma negli adulti, spesso, diventa un ideale di vita, certamente non nobile, perché sono gli altri che ne fanno le spese, creando un campo di battaglia tra due fazioni: gli egoisti, detti ricchi, ed i poveri. I primi si definiscono tali perché possiedono tanti beni e gli altri ne hanno pochi. La quantità dei beni è una unità di misura spicciola e poco significativa, per definire la povertà, mentre vale meglio il metro della propria disposizione d’animo.

Ci sono taluni che il possesso, della roba altrui, è ritenuto un loro diritto ed inalienabile, mentre non capiscono che sono nati già con un corredo fatto da altri e dalla natura e  spendono il tempo in attesa della morte, succhiando, come un parassita, le sostanze ricevute. C’è una forma di povertà dovuta a carenze spirituali, per cui il mondo dev’essere tutto loro, creando un inferno di relazioni, di situazioni e di rimbalzi su altri, che non hanno colpa. Così avviene che un padre preferisca il conto in banca ad un rapporto sereno con la famiglia. Poi succede che nell’educazione dei figli si cerchi di risparmiare non mandandoli a scuola, per realizzare una professione a cui sono portati; oppure, si evita, ai figli, di partecipare ad una scuola che ti sensibilizza sulla dignità umana o nella partecipazione ad una attività, per un bene comune o a una visione aperta al bene sociale, il tutto per accantonare ricchezze per l’acquisto di case, di auto sempre più di lusso, di imbarcazioni che si useranno solo qualche volta o per accumulare depositi che saranno destinati alla stabilità del proprio orgoglio che, nei rapporti ereditari, creeranno litigi, divisioni e guerre.  Qui l’umanità soggiace al soldo di  … perdendo benefici di una civiltà che si potrebbero espandere di famiglia in famiglia. Chi vive questo habitat non si rende conto di quanto la visibilità sulla conoscenza del mondo, in particolare dell’umanità, si accorci sempre più come succede ad un miope, diventando sempre più insensibile, incapace di giudicare il valore della persona trattandola a ”pesci in faccia”, e riducendosi ad un semaforo rotto, che ha solo una luce e solo quella. Ci sono dei mariti che se ne vanno lasciando sul più profondo lastrico moglie e figli; ce ne sono altri che si drogano, si ubriacano, non lavorano, incuranti delle proprie responsabilità, della famiglia che lo mantiene, dei figli che si decideranno per strade avverse al bene proprio e degli altri, per cui  la sofferenza ricade su una famiglia che soffre per le percosse, per gli umori devastanti e per i silenzi tombali; provare per credere.

Questi non sono che pochi esempi di una povertà che chiamiamo passiva, perché sono gli altri che soccombono alle tristezze di quelli che pensano di godersela. In realtà, per quanto uno possa oscurare la propria coscienza, non guadagna nessuna soddisfazione. Se potessero parlare le maschere dei nostri volti direbbero: “Hai fatto tutto per avere tutto, ma non riesci a godere nulla. Hai trovato una nuova donna, e questa, quando non ti sfrutta, non ti dà  la gioia e devi far buon viso a cattivo gioco, perché sai di non poter più ritornare suoi tuoi passi.  La povertà giudica in silenzio ed il suo dito sentenzioso è sempre davanti a te per accusarti e toglierti quell’umanità che avevi ed ora rimpiangi. C’è anche una povertà attiva  che, senza arrivare alla “perfetta letizia” di san Francesco, ti allarga il cuore.  Come Anna, il povero cerca la vita: da bambina lavora come domestica, poi studia e poi fa l’infermiera … Non è innanzitutto questo, quantunque sia logico, un problema di sopravvivenza, ma il frutto di una libertà interiore che si apre spontaneamente al bello, al nuovo, alla costituzione della propria personalità. Il povero non ha paure, non ha remore, ma affronta con gioia la novità e l’incontro con le persone, con i loro problemi, con i fatti, con situazioni più o meno transitori. Il suo habitat non si stringe attorno a sé per controllarlo meglio e spremerlo per i propri interessi, ma sono proprio questi che non ricadono su sé stessi, invece, con disinvoltura, accoglie, non rifiuta le difficoltà per portarle sulle sue spalle, sperando che qualcuno possa condividere con lei le fatiche. Il povero si dona, dissipandosi a gocce, con tanta disinvoltura, lasciando salire al cielo il profumo del suo gesto, che contamina chi lo riceve, colmando non solo uno stomaco vuoto, ma anche un senso  di umanità che ti fa credere, che la vita ed il frutto dell’amore ci sono. La povertà guarda gli altri e nasconde sé stessa, perché appoggia su un dare per non ricevere, se non la gioia della vita.  Il “ricco” può salire gli alti gradi della società, ma non possedendo più la distinzione tra giusto e ingiusto, tra dare e avere non sa più mettere una barra dritta alla sua vita e non sa più chi esso sia; mentre chi accoglie con coscienza la povertà,  trova la ricchezza della sua identità, come quello di Giobbe il quale, come un bambino che ha un desiderio posto in alto, prima si solleva in punta di piedi, poi con il grido della preghiera, Qualcuno lo solleva in un amplesso alla propria guancia, la cui ricchezza  è la somiglianza con il Giusto e questa sarà ricordata per sempre.    

Paolo Fiorani

 

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