QUESTIONE DI NARRAZIONE

Un fenomeno non è solo il fatto in sé ma il fatto, l'evento ovvero ciò che (più o meno) oggettivamente è accaduto, unito all'interpretazione che si da di esso. Nel concreto della nostra vita noi non reagiamo di fronte ai fatti ma alla percezione che abbiamo di essi. Percezione e interpretazione sono in relazione circolare con la modalità con cui i fatti vengono narrati, con la loro narrazione.


Il modo di narrare, di raccontare, influenza il modo di percepire che a sua volta ci spinge verso un modo di interpretare ed in base a come interpretiamo a nostra volta narriamo. In qualche momento all'interno di questo circolo decidiamo quali azioni intraprendere che a loro volta, in base agli effetti prodotti, avranno ricadute su percezione, narrazione e interpretazione.
Ecco perché, ad esempio, un buon giornalista deve separare i fatti dalla loro interpretazione e non far passare per vero ciò che è interpretazione, talvolta non del tutto disinteressata.
C'è quindi differenza tra “fatto” coronavirus e “fenomeno” coronavirus e per unire i due in modo il più possibile corretto occorre avere dei dati, formulare domande, ricercare correlazioni.
Una prima domanda riguarda i numeri del contagio. È evidente che i numeri dichiarati non sono i numeri reali; c'è uno scarto talvolta notevole in termini percentuali. I dati reali mancano! In tutto il mondo. Ma senza quelli di cosa stiamo parlando? E soprattutto: perché mancano?
Una seconda domanda riguarda i sistemi sanitari. In Italia, ho letto e spero il dato sia corretto, ci sono circa cinquemila posti di terapia intensiva quando una stima indica in sessantamila i posti necessari per una popolazione di circa sessanta milioni di persone. Ecco allora la domanda: con sessantamila posti avremmo affrontato l'emergenza sanitaria nello stesso modo? Se il virus può essere un evento naturale il numero di posti letto è una scelta politica, frutto di decenni di scelte. Ieri, a causa dei tagli, i medici erano i nemici che si disinteressavano della mia salute, oggi sono gli eroi. Ma il dato è che i governi regionali e nazionali hanno tagliato, con l'assenso del voto. Anche solo chiamare “azienda sanitaria” implica un modo di narrare che va oltre il semplice controllo dello spreco di risorse. Un azienda deve produrre utili, come primo ed irrinuciabile obbligo. Utili significa anche controllo delle spese quindi, mi chiedo, quanti responsabili degli uffici acquisti avrebbero conservato il loro posto di lavoro se il 15 febbraio avessero speso qualche migliaio di euro in DPI per il personale sanitario?


Altra domanda: siamo d'accordo nell'affermare che siamo in guerra? Personalmente no, perché la guerra presuppone una fine, una sospensione dei diritti che si hanno in tempo di pace, uno sforzo economico e produttivo finalizzato anche a scapito di altre aree di investimento. Preferisco dire che siamo in tempo di cura, ovvero in un tempo in cui siamo chiamti a prenderci cura dei malati, dei loro familiari, di noi stessi e della comunità in cui viviamo. Prendersi cura non è la stessa cosa che andare in guerra. La guerra finisce, prendersi cura no!


E a proposito di guerra: quanti respiratori o posti letto in più ci sarebbero se riducessimo del dieci per cento le spese militari? Perché per comprare libri, materiale sanitario, cibo per indigenti, si organizzano raccolte fondi e non per comprare i famosi F35? Questo è frutto di scelte.
Ma se io compro armi per difendermi perché il mio vicino a cui non sto simpatico e che ha altri interessi dovrebbe credermi?


Capitolo tasse. Evadere le tasse non è un semplice reato, è un crimine contro la democrazia, contro l'umanità e come tale va sanzionato. Siamo qui a discutere di aiuti europei e via dicendo quando in Italia l'evasione è alle stelle. Per quale motivo ci scandalizziamo se ci guardano con diffidenza? È vero che l'Europa o c'è o è finita; è di fronte ad una sfida epocale che segnerà il futuro di tante prossime generazioni europee ma non solo, ma i cattivi non sono solo gli altri. Fa parte di una narrazione irreale e perversa cercare sempre e comunque un nemico: ieri i migranti, oggi i paesi del Nord, domani?


Un'ultima condivisione. Oggi siamo immersi in una cultura che ha eliminato la morte dall'orizzonte della vita. Ma la morte è parte della vita. Dietro ogni morto c'è una persona, una famiglia, degli affetti e delle relazioni, ma essa è dentro la vita. Il nostro rapporto con essa determina in modo fondamentale il rapporto con la vita, con le scelte concrete, con la modalità narrativa e come percepiamo gli eventi. Forse dovremmo rappacificarci con la morte per vivere più sereni, senza con questo fare sconti a chi taglia la sanità. Prendersi cura parte anche da qui. È una scelta politica dare o togliere risorse al volontariato, a coloro che cercano di costruire comunità, relazioni gratuite, buon vicinato. Perchè in ultima analisi se il mondo ruota intorno a me, se la banca ruota intorno a me, se al centro della rete dati ci sono io, se tutto è in funzione di me, quando ci accorgiamo che questa è una falsa narrazione e non corrisponde alla realtà dei fatti ne va della tenuta sociale di un popolo. Prendersi cura è la strada da seguire, prendersi cura degli altri.
In questo i cristiani, quelli veri, non possono che essere davanti, mettendoci la faccia, perché Gesù ha modificato il modo di narrare e percepire la morte stessa. Per i cristiani essa non è l'ultima parola, ma solo una parola di passaggio.

 

diacono Dario Gellera
15 Aprile 2020