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ALFIE EVANS: UNA VITA “FUTILE”?

I genitori e anche il piccolo - per come ha reagito negli ultimi giorni – chiedevano che gli fosse accordato proprio questo: il diritto di scegliere la vita.

 

Foto da www.agensir.it

Alle 2.30 del 28 aprile il piccolo Alfie Evans “ha posato il suo scudo ed ha aperto le ali”. Queste sono state le parole del papà – Tom – con le quali ha comunicato al mondo la notizia della morte del figlio, che ha combattuto davvero come un “gladiatore” pur di restare in vita. Tutti hanno visto e tutti sono stati testimoni di come – nonostante fosse stata staccata la macchina per la ventilazione respiratoria – con grande sorpresa dei medici egli abbia continuato a vivere per quattro giorni. Sì, ci teneva proprio a vivere.

Non valgono questa volta le considerazioni che sono state accampate in altri casi da gruppi politici o da alcune associazioni “a difesa della libertà dell’autodeterminazione”, che scendono in campo generalmente solo per affermare il principio di scegliere la morte. Già, sembra che la libertà di scelta sia solo quella di “scegliere di morire”. Non si può declinare la libertà di autodeterminazione come libertà di “scegliere la vita”?

Nel caso di Alfie, affetto da una forma sconosciuta di patologia neurologica degenerativa, i due genitori e anche il piccolo – per come ha reagito negli ultimi giorni – chiedevano che gli fosse accordato proprio questo: il diritto di scegliere la vita. Certo, forse la sua esistenza si sarebbe protratta solo per un breve periodo (ma in fondo che ne sappiamo noi?)… Tuttavia sarebbe stato un tempo prezioso per lui e per i suoi famigliari per prepararsi al congedo e per umanizzare la morte.

Quanto è accaduto in Inghilterra – nell’ospedale “Alder Hey” di Liverpool – si dice che non potrebbe mai accadere in Italia, perché ci sono due ordinamenti giuridici diversi. In realtà in entrambi i Paesi in un certo senso lo Stato ha “più potere” dei genitori. Pensiamo al caso in cui dei genitori intendano impedire delle cure vitali al proprio bambino: ebbene, in questo caso lo Stato italiano interviene “al di sopra” dei genitori e impone che le cure siano somministrate. Oppure pensiamo ai casi in cui lo Stato accerta che una coppia di genitori non sia in grado di occuparsi dei propri figli e li affida ad altri… Anche in Italia, quindi, lo Stato ha “più autorità” dei genitori e tuttavia c’è una profonda differenza rispetto all’Inghilterra: qui, da noi, lo Stato interviene per promuovere il “favor vitae”, cioè il favore o il bene della vita del piccolo. Mai il contrario.

In Inghilterra lo Stato – attraverso il suo apparato medico e giuridico – può stabilire anche il “favor mortis”, cioè se staccare la spina e far morire il bambino. Nel caso di Alfie i medici e con loro i giudici inglesi (e poi anche quelli di Strasburgo) hanno stabilito che “the best interest” – il migliore interesse – di Alfie fosse concludere i propri giorni, appunto morire. Piuttosto contraddittorio, per lo meno. Lascia perplessi anche il linguaggio usato dalla Corte inglese che ha motivato il distacco della macchina definendo la vita di Alfie futile: questo è l’aggettivo inglese utilizzato dai giudici, che ha sostanzialmente lo stesso significato del “futile” italiano. Futile può voler dire – interpretazione più benevola possibile! – “così fragile che non è più possibile far nulla” oppure – ed è questo che preoccupa seriamente – “così qualitativamente compromesso che non vale più la pena far nulla per conservarlo in vita”. In questo secondo caso, è una visione della vita che si impone: quella che distingue tra vite più degne e vite meno degno di essere vissute.

Allora – ci chiediamo – quante altre esistenze “futili” ci potrebbero essere tra noi? E chi lo decide? Lo Stato? E in base a che cosa? Quali i criteri per distinguere una vita “futile” da una che non lo è? Ci sono motivi seri di preoccupazione.

Nella storia di Alfie – come anche nella vicenda simile di Charlie Gard – ci sono però anche degli aspetti che inducono alla speranza. Senza dubbio si stagliano le figure dei due giovani genitori, Tom e Kate: una coppia affiatata, che amava così tanto il proprio bambino da giocare tutte la carte possibili pur di difendere il “miglior interesse” del figlio, cioè la sua vita. Non appare un fatto scontato oggi: né l’affiatamento di questa coppia, né l’amore appassionato per il loro bambino. Anche la figura del sacerdote – don Gabriele Brusco, guarda caso italiano – che ha accompagnato Alfie e la famiglia in questo delicato momento si è rivelata una presenza importante: in realtà ha fatto quello che da noi ancora si riesce a fare con una certa facilità, qualora la famiglia lo desideri. E poi anche l’importante mobilitazione (soprattutto dell’Italia) a favore di Alfie e della sua famiglia dà da pensare.

Magari noi italiani reagiamo “di pancia” alle situazioni, col rischio di perdere la pacatezza necessaria per analizzare con oggettività le situazioni. Ma tutto sommato questo ci aiuta a non cadere in un certo cinismo che rende inospitale il mondo e invivibile la vita.

Alessio Magoga

direttore “L’Azione” (Vittorio Veneto)
(da www.agensir.it)

Cernusco sul Naviglio, 7 maggio 2018