MEDITARE PER VIVERE IN PIENEZZA
La fede ci aiuta a guardare con fiducia quello che, altrimenti, ci parrebbe incomprensibile e a volte perfino ingiusto. Grazie alla fede possiamo credere che ci sia un senso nel morire e che con la morte non finisca tutto né per noi né per gli altri.
Perdere una persona cara è un’esperienza che nella vita di ognuno, prima o poi, succede. È un’esperienza dolorosa e si sente come uno strappo al cuore: qualcosa si rompe dentro di noi e si percepisce un vuoto. Improvvisamente si fa largo dentro la consapevolezza che quella persona non ci sarà più: non vedremo più il suo sorriso che ci rallegrava, non sentiremo più la sua voce chiamarci per nome, non godremo più della sua presenza e delle sue battute… In questi momenti, la fede può essere una grande risorsa per accogliere il mistero della morte con uno sguardo di speranza. A volte può risultare più facile, altre volte – soprattutto di fronte alla morte improvvisa di persone giovani – appare più faticoso. In ogni caso, la fede ci aiuta a guardare con fiducia quello che, altrimenti, ci parrebbe incomprensibile e a volte perfino ingiusto. Grazie alla fede possiamo credere che ci sia un senso nel morire e che con la morte non finisca tutto né per noi né per gli altri. La fede offre una prospettiva – un Oltre – anche dinanzi alla morte.
Trattare questi argomenti e frequentare i cimiteri, come succede in questi giorni, potrebbe intristirci un po’. Inutile nasconderlo: si fa più presente la sofferenza per chi non c’è più e si avverte in maniera più intensa il vuoto dell’assenza di chi abbiamo amato. Qualcuno dice che, col passare del tempo, il forte dolore si trasformi in nostalgia, che talvolta può anche far sorridere con una lacrima di commozione. Ma può anche sorgere nel cuore un profondo senso di gratitudine, per quello che si è condiviso insieme o imparato da chi non c’è più. Qualcuno arriva a percepire che questa assenza non è totale: vi è una sorta di presenza che, discreta, continua ad accompagnarci.
Allora il mistero fa un po’ meno paura e ci sentiamo dentro a una comunione più ampia, che abbraccia i vivi e anche chi non c’è più, in un’unica grande famiglia. La comunione dei santi, in realtà, vuole esprimere questo invisibile legame tra vivi e morti: un legame buono, che conduce a Dio e che fa circolare il calore dell’affetto e della vita.
Un tempo, il genere letterario della “meditazione sulla morte” era molto diffuso. Sino a non molti anni fa, nei seminari e nelle case dei religiosi si insegnavano le preghiere per chiedere “la buona morte”. Per non parlare dei motti delle meridiane, ancora oggi ben visibili. Uno fra tutti: “Le ore feriscono, ma l’ultima uccide”. Tutto ciò oggi sembra inopportuno, scomparso sotto la spinta di un desiderio di vita e di felicità che, se da un lato ha il suo senso, dall’altro pretende di raggiungere la pienezza della vita, dimenticandosi della morte, quasi nascondendola e relegandola a “cosa” da non dire, come un evento da esorcizzare e allontanare.
In realtà le antiche meditazioni, le semplici preghiere o i motti delle meridiane avevano un significato profondo: quello di ricordarci la nostra fragilità, per imparare a fare tesoro del tempo che ci è dato. Insomma, pensare alla morte come momento per vivere con più consapevolezza e per mettere a frutto i doni che ci sono stati dati. Non per intristire, dunque, ma per vivere meglio e in pienezza il tempo donato.
“Sol chi non lascia eredità di affetti, poca gioia ha dell’urna”: così la meditazione del Foscolo sulla morte ci ricorda che il modo migliore per dare senso alla vita è dedicare tempo alle relazioni e alle persone: sono queste in definitiva il tesoro più grande.
Alessio Magoga,
direttore “L’Azione”
(Vittorio Veneto)
(da: www.agensir.it)
Cernusco sul Naviglio, 6 novembre 2017