IMPAREREMO QUALCOSA?
In questo periodo c’è il rischio di non convertirsi, di non cambiare, di resistere al cambiamento. Si potrebbe riprendere tutto come prima o anche peggio, mancando l’appuntamento con la storia
«Neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi»
In questo tempo del Coronavirus, che sembra non avere fine, c’è il grave e molto probabile rischio di non imparare, di non convertirsi e di non cambiare. Viene alla mente la conclusione della parabola di Lazzaro e del ricco epulone nella invocazione del ricco epulone dall’inferno ad Abramo: «Il ricco disse: “Allora, padre, ti prego di mandarlo a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui: “No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi”» (Lc 6, 26-31).
Per imparare da questo tempo è prima necessario attraversarlo fino in fondo. Con una metafora del racconto biblico dell’Esodo, prima bisogna attraversare il mare e poi c’è un lungo e faticoso cammino nel deserto prima di entrare nella terra promessa. “Il tempo per imparare” è fondamentale per lasciarsi mettere in questione in modo profondo e cambiare, altrimenti rimarrà retorica l’affermazione più volte ripetuta da tutti: «Non sarà più come prima!». Non c’è purtroppo solo il rischio di non cambiare, ma se non si sente, non si ascolta, se non si impara dall’esperienza, c’è anche il pericolo di andare anche peggio nella comunità ecclesiale come in quella civile.
La sindrome dell’interpretazione precoce
Non hanno il tempo di imparare i molti ammalati della sindrome “dell’interpretazione precoce”, hanno già capito tutto, forse perché lo sapevano già (!). Sono soprattutto quelli che se ne sono stati fuori da questo mare pericoloso, senza sentirsi responsabili di niente, senza essere feriti dalla vulnerabilità propria e di tante persone desolate, dai lutti, dalla paura e dall’angoscia. È una sindrome che colpisce sia laici, sia credenti, intellettuali, politici, teologi e scienziati, che hanno il giudizio facile. La facilità a giudicare è inversamente proporzionale a quella di comprendere. Quindi non ci si lascia veramente interrogare da ciò che sta accadendo per cambiare il proprio stile dei vita, i propri pensieri e la qualità delle proprie azioni.
Trovare il colpevole
Non hanno tempo per imparare quelli che trovano sempre il colpevole, il capro espiatorio, dando sempre la colpa agli altri. In questa fase di iniziale remissione della pandemia stanno moltiplicandosi coloro che accusano e spesso sono gli stessi che hanno sottovalutato e deriso la gravità del pericolo. Come diceva un intelligente e simpatico professore: “Poche idee magari sbagliate, ma molto sicure”. Chi nega il pericolo spesso diventa l’accusatore scandalizzato. La teoria del nemico negli eventi sociali funziona benissimo. Nel gruppo sociale si passa dalla dipendenza, che si aspetta tutto dalle istituzioni governative, alla fuga o negazione dei problemi o all’attacco aggressivo tra le parti o verso un nemico – come ricordano «gli assunti di base» di Bion (W.R. Bion, Esperienza nei gruppi [1961] 2016). Non impara niente chi si fissa su un “nemico” come assoluto e quindi riesce a dividere il mondo in due, in modo netto, tra buoni e cattivi. È uno schema di valutazione morale che si dovrebbe superare almeno verso gli undici anni di vita, ma è molto presente anche come strategia tra alcuni politici. In tal modo si semplifica la vita a se stessi e la si complica agli altri. Soprattutto si fa grande “economia” perché non c’è da imparare, non ci si esamina sulle proprie responsabilità etiche verso il prossimo né prima né dopo. Gli interessi personali, di gruppo, di partito o di azienda sono gli unici che contano e non importa chi li paga.
Non fare i conti con se stessi
Non hanno tempo per imparare quelli che in questi giorni non stanno facendo i conti con se stessi. La pandemia crea un “pressing” emotivo pesante che risveglia le parti più difficili di sé stessi, è come una radiografia che mette allo scoperto il proprio modo di essere, le crepe e le fragilità, lo stile delle relazioni, a volte in modo così doloroso e improvviso da gettare nella confusione e da far saltare l’equilibrio psichico di una persona anche con esiti tragici. Non hanno tempo di imparare coloro che non prendono contatto con la vulnerabilità e la grandezza della propria umanità: le povertà e i limiti, le qualità e le risorse, ciò che sta più cuore e ciò che da senso e gusto alla vita. Questo tempo di vero e proprio “tirocinio” nel vivere, così esigente, apre occhi nuovi verso gli altri oltre che verso se stessi. Può essere un tempo nel quale si impara molto anche a riguardo di esperienze precedenti, ma per imparare occorre il coraggio di rischiare e lasciarsi convertire.
Mancare l’appuntamento con la storia
Si apre un tempo delicato e rischioso in cui re-imparare a camminare e stare con gli altri, c’è chi ha paura e c’è chi ha fretta, non è facile tenere insieme tutti i beni in un quadro equilibrato. Ma il rischio più grave sarebbe quello di non imparare e quindi di non cambiare, ma, come è più probabile, ripetere o peggiorare. Lo sappiamo, la sofferenza vissuta può unire e può lacerare, può rendere più umani e indurire, può aprire e può chiudere, può spingere alla generosità o alla vendetta, può provocare al coraggio di una nuova immaginazione possibile o può far regredire ad una rigida ripetizione ossessiva (Francesco, Il coraggio di una nuova immaginazione possibile, Osservatore Romano, 17 aprile 2020). Impareremo qualcosa? Dopo il mare del grave pericolo, come per il popolo di Israele, ci aspetta il cammino nel deserto, per imparare chi veramente siamo (“Come ci stiamo conoscendo? Quali scelte personali sono messe alla prova? Quali interrogativi rispetto al mio stile di vita?”), chi è Dio per noi (“Come è mutata la percezione del volto di Dio? Quale resistenza/lotta e affidamento/resa verso Dio? Come si sta purificando e rendendo più essenziale la fede?”), come si può camminare insieme come popolo generato dalla Pasqua (“Quali forme di solidarietà viviamo? Come stiamo riscoprendo il senso della comunione ecclesiale? Quali sentieri stiamo percorrendo nella fraternità e nelle riconciliazione famigliare e sociale?”). Proprio ora c’è un tempo per imparare. Stiamo attenti a mancare l’appuntamento con la storia: «Ho paura del Signore che passa e che non ritorna! ». Così ammonisce il detto agostiniano, che spesso ripeteva don Franco Carnevali, il prete che mi ha guidato negli anni della giovinezza nella scelta vocazionale e che ha donato definitivamente la sua vita in questo tempo di sofferenza e conversione.
don Enrico
PAROLARI
Prete e psicoterapeuta, Formazione permanente del clero