LA BENEDIZIONE DELL´ATTESA
Della
prosperità dei giusti la città si rallegra, per la rovina dei malvagi si fa
festa. La benedizione degli uomini retti fa prosperare una città, le parole dei
malvagi la distruggono.
Libro dei Proverbi, capitolo 11
«Porgi l’orecchio, Signore, alle mie parole: penetra nel mio bisbiglio. Sii attento alla voce del mio grido, o mio re e mio Dio, perché te, te supplico Signore» (Salmo 5, 2–3). Un uomo innocente è accusato di un delitto. Ha cercato di difendersi, invano. Ha esaurito i gradi di giudizio della giustizia umana. Gli resta ancora il Giudice di ultima istanza. Si alza di buon mattino, anticipa il sorgere del sole, si reca nel tempio per presentare a Dio la sua “causa”. Riesce solo a bisbigliare poche sillabe, a emettere un sussurro con le ultime energie morali che gli sono rimaste: «Al mattino ascolta la mia voce; al mattino ti espongo la mia causa e resto in attesa...» (4). Penetra nel mio bisbiglio. In queste ultime udienze della vita resta solo il fiato per un bisbiglio. Non ci sono preghiere più umane dei sussurri sottovoce mescolati col pianto. Il sussurro dell’uomo umiliato e straziato è la forma pura della preghiera che commuove il cielo e la terra. Ed è la più bella preghiera laica e umanissima che ci possiamo dire gli uni agli altri, quando solo chi è capace di sussurrare tra il cuscino, il ventilatore e il cuore può penetrare bisbigli preziosi come la vita.
Quest’uomo sa di essere innocente, e denuncia e condanna i malvagi che l’hanno
ingiustamente infamato: «Tu non sei un Dio che gode del male... Tu hai in odio
tutti i malfattori... Sanguinari e ingannatori, il Signore li detesta» (5–7). E
poi loda Dio che lo ascolta: «Io, invece, per il tuo grande amore, entro nella
tua casa... Guidami, Signore, nella tua giustizia a causa dei miei nemici;
spiana davanti a me la tua strada» (8–9). Bella l’immagine della strada
spianata. La giustizia è anche rettitudine,
cioè l’arte di rendere rette le vie, di spianare gli ostacoli, di rimuovere le
pietre d’inciampo, cioè gli scandali. La via del povero è costellata di pietre
e di ostacoli. Leggi, decreti dei potenti, trucchi. La giustizia dovrebbe
spianare la sua strada e farlo camminare libero. La buona storia umana è una
progressiva trasformazione di strade accidentate in strade dritte e poi una
continua manutenzione di queste strade aggiustate perché alla prima nostra
distrazione si riempiono subito di pietre e di scandali.
L’uomo del Salmo 5 usa una tipica
struttura retorica del salterio: “loro ... io
invece”. Loro stolti e bugiardi ... io
invece innocente. Quale il senso di questo: “io invece”? Una prima
lettura di questi versi porterebbe a dire che il Dio biblico esaudisce le
preghiere in virtù della giustizia di colui che prega. L’intervento della
giustizia di Dio sarebbe una risposta alla giustizia dell’uomo. Solo il giusto
è ascoltato nella sua preghiera. Molti lo pensano, molti lo hanno sempre
pensato, perché tendiamo ad attribuire a Dio le stesse caratteristiche dei
buoni giudici umani. Delitti e pene, meriti e premi. Amiamo talmente la
giustizia da non poter immaginare un Dio che sia meno giusto di noi. E così,
prima creiamo la giustizia divina “a immagine e somiglianza” della nostra, e
poi, una volta creata, usiamo questa giustizia “divina” per dare un crisma
sacrale alla nostra giustizia umana, per condannare gli altri con la
benedizione di Dio, fino a fondare oggi la meritocrazia sulla Bibbia e sui
Vangeli. Lo abbiamo sempre fatto, e continuiamo a farlo. Noi conosciamo le
leggi economiche e quelle giuridiche e, senza volerlo, abbiamo costretto Dio a
diventare un commerciante e un giudice.
Ma c’è anche una seconda possibile lettura. È quella che non pone la ragione dell’ascolto della preghiera
nei meriti/colpe di chi prega ma nella gratuità di Dio. Siamo salvati perché
siamo buoni o diventiamo buoni perché siamo salvati? L’antica domanda al cuore
della fede biblica. San Paolo cita questo salmo 5 (il versetto 10 sulla
cattiveria e la menzogna degli altri) per dire qualcosa che va nella direzione
di questa seconda interpretazione: «Non c’è differenza, perché tutti hanno
peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente
per la sua grazia» (Rm 3,13). Tutti sono giustificati gratuitamente per
la sua grazia. Una rivoluzione epocale e ancora incompiuta, perché è troppo
forte in noi la tentazione di leggere ciò che di buono ci accade come la
ricompensa dei nostri meriti, e le cose cattive che succedono agli altri come
frutto delle loro colpe. Perché ci piacciono i doni, ma di più ci piace
pensarci meritevoli dei doni. Ma se Dio fosse circoscritto nello stesso
perimetro della nostra idea di giustizia commerciale e giuridica non avremmo da
nessuna parte qualcuno capace di far evolvere ciò che già chiamiamo
giusto in quel giusto che non ha ancora questo
nome.
Se e quando le comunità costringono Dio a essere giusto nelle forme e nei modi
della loro giustizia umana, si autoconfinano in trappole etiche che impediscono
alla giustizia loro e di Dio di diventare migliore. Sono i casi, molto
frequenti nelle religioni, quando una teologia ristretta restringe l’umano. La
Bibbia e il suo Dio sono invece cresciuti insieme alle interpretazioni che gli
uomini e le donne hanno dato alla giustizia divina. Anche questo è reciprocità
tra cielo e terra.
Le stesse pagine bibliche, gli stessi salmi, hanno detto cose diverse alle
diverse generazioni di lettori. E non tanto né soltanto per lo sviluppo delle
tecniche esegetiche, ma perché l’evoluzione delle nostre idee di giustizia e di
amore hanno cambiato e arricchito le domande che abbiamo imparato a rivolgere a
Dio e a noi stessi, e così quelle antiche parole bibliche hanno imparato parole nuove e diverse dal
patire degli uomini e delle donne. La Bibbia è logos e dia–logos, ci parla solo se le facciamo
domande, e attende che ogni giorno le ripetiamo: “vieni fuori”.
Ogni generazione ricomprende il “sacrificio” di Isacco e la passione di Cristo
sulla base della crescita delle idee di giustizia che è stata capace di
generare e far risorgere dalle sue ferite. Oggi diciamo cose diverse – e le
dobbiamo dire – sui padri, sui figli, sui sentimenti che provano gli uni e gli
altri di fronte ai Golgota e ai Monti Moria, perché abbiamo avuto migliaia di
anni per capire cosa sia il morire e il risorgere. E se noi impariamo cose
nuove sulla vita, in noi le impara anche la Bibbia che riesce così a dirci cose
che non poteva dirci duemila anni fa, né ieri. Il Dio biblico per crescere ha
bisogno di noi e della crescita della nostra giustizia. La parabola del buon
samaritano che si prende cura dell’uomo “mezzo morto” ha detto sempre cose
nuove dopo ogni guerra, dopo ogni epidemia, dopo ogni volta che siamo arrivati
noi “mezzi morti” in un pronto soccorso; e potrà dire cose nuove oggi quando
medici e infermieri ci hanno ampliato la semantica dell’espressione “prendersi
cura”. E forse avevamo bisogno di due mesi di chiese chiuse e liturgie sospese
per capire diversamente, in questa ora, le parole del Vangelo di Giovanni: «Ma
viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in
spirito e verità» (Gv 4,23).
C’è molto del canto di Giobbe nei canti del Salterio. Il nostro canone colloca
i Salmi dopo il Libro di Giobbe perché non capiamo i Salmi senza leggerli in
compagnia di Giobbe, se non li cantiamo dal suo mucchio di letame, se non li
intoniamo fuori dalla mura, come lui scomunicati, condannati dagli amici, in
dialogo con un Dio che tarda ad arrivare. Anche Giobbe trasformò la sua
discarica in una aula di tribunale, anche lui portò sul far del mattino la sua
“causa” a Dio: «Con Dio desidero contendere. Ecco, espongo la mia causa, sono
convinto che sarò dichiarato innocente» (Gb 13, 17–18). Allora se leggiamo la
causa del salmista insieme alla causa di Giobbe possiamo imparare qualcos’altro
di nuovo sul loro Dio.
L’autore del Salmo 5 porta a Dio la sua causa, e... “attende”; Giobbe chiede a Dio di scendere dal suo trono per essere fideiussore della sua innocenza, e ... attende. Entrambi hanno in comune l’innocenza e hanno in comune l’attesa di una giustizia diversa. Non sappiamo se questa giustizia più giusta arrivò per il protagonista del Salmo 5, non è mestiere del Salterio narrarci gli epiloghi delle vicende dei suoi personaggi. Conosciamo però come finì la preghiera di Giobbe: nonostante la sua innocenza, il Dio di Giobbe non venne all’appuntamento, e quando, alla fine, arrivò, non era il dio che Giobbe aspettava; non venne il Dio di Giobbe ma quello dei suoi amici e della loro teologia, un dio che si rivelò troppo più piccolo della giustizia di Giobbe che era cresciuta insieme alle sue piaghe.
Allora un messaggio nascosto in queste pagine bibliche è la benedizione
dell’attesa. La fede in una giustizia diversa e più alta genera la speranza non
vana che domani possa davvero arrivare il Messia e che lo sapremo riconoscere
come si riconosce un amico perché lo abbiamo atteso e desiderato. Il giorno del
Messia è domani, ma questo domani
benedice l’oggi e gli cambia il nome. Alla nostra generazione non manca solo la
fede, le manca soprattutto la speranza e il desiderio dell’attesa.
Questa attesa infinita della storia non è esclusiva di un club di innocenti e
di giusti: è anche quella dei malvagi e de peccatori, perché si può sempre
infilare in uno dei pertugi di innocenza che
ogni uomo vive in alcuni giorni luminosi della vita – anche Caino, anche Giuda,
e quindi anche io, sebbene debba sempre combattere la tentazione invincibile di
identificarmi con la parte giusta dei salmi. La nostra bontà è più grande dei
nostri peccati.
Un’altra volta, un altro giorno, un altro uomo in crisi e depresso che voleva morire sotto una ginestra, fu salvato da un sussurro, da una «sottile voce di silenzio» (1 Re 19). Quella volta fu Dio che imparò a sussurrare, e quel bisbiglio arrivò all’orecchio di Elia e lo risuscitò. E se la preghiera fosse soltanto un incontro di sussurri?: «Tu benedici l’innocente Signore, lo corazza e lo incorona la tua benevolenza» (15).
Luigino Bruni
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