Giovedì 30 Marzo

L’IRA DELL’AGNELLO. LETTERA DI UN MEDICO ALL’AZIONE CATTOLICA

Sono un medico impegnato da più di un mese senza molte soste in un lavoro che mi mette a contatto con molta sofferenza inaspettata, tanto da avere caratteri quasi surreali, inauditi, non solo per l’urgenza e la difficile comprensibilità di alcune situazioni cliniche, ma soprattutto per i risvolti umani fatti anche di paura e di solitudine.

Sperimento il privilegio di lavorare insieme a donne e uomini coraggiosi, generosi e molto intelligenti, la gioia di vedere tante persone guarire, il sostegno della gratitudine quanto mai gratuita di coloro a cui prestiamo le nostre cure, così come quella degli amici che sento vicini. Questa gratitudine sostiene da sempre il mio lavoro e ne è in qualche modo all’origine, in tanti risvolti che vorrei raccontavi.

Ma scusate, non vi scrivo per raccontarvi, vi scrivo per mettere il mio pezzetto nella ricerca di un senso, vi scrivo sull’oggi che tutti condividiamo e soprattutto vi scrivo sul dopo.

Viviamo in una terra bellissima:

  • Abbiamo una metropoli bellissima: prati, boschi, colline, montagne, laghi, città ricche di storia.
  • Sappiamo il valore della generosità e dell’empatia, del ‘cuore in mano’, sappiamo esserci quando ce n’è bisogno davvero, quando qualcuno bussa alla porta, quando viene interpellata la nostra responsabilità. Non solo perché al suo posto potremmo esserci noi, ma perché aiutare risponde a una domanda di giustizia, il cui senso non può essere disatteso.
  • Abbiamo creatività e intraprendenza, sappiamo programmare, ‘stare sul pezzo’, sappiamo mettere insieme i sogni con i progetti, i fini con gli obiettivi, le grandi visioni con i piccoli passi.
  • Ci piace comunicare, stare allegri, sappiamo il valore dell’empatia e sperimentiamo che senza condividere una parte di noi facciamo fatica a trovare un senso alle cose che facciamo.
  • Abbiamo in buona parte, per tradizione e per storia, un radicato senso di religiosità; nel nostro tessuto sociale si trovano i semi e i germogli di una spiritualità gettata a piene mani da instancabili seminatori di Vangelo, di buona etica, di buone visioni sul nostro tempo e sulle nostre città, profezie spesso inascoltate ma che non sono mai venute meno.

E tuttavia il tempo che stiamo vivendo, la malattia, il rischio e la realtà della morte, mettono in risalto limiti che dobbiamo saper guardare negli occhi.

Mi viene da pensare a chi lavora con me, a tanti discorsi che mai come prima vanno in profondità, alle volte adirati, alle volte solo appassionati, ma sempre con la mitezza di chi rimane al proprio posto.

Mi torna in mente, pensando a queste voci, una espressione strana, quasi un ossimoro: l’ira dell’Agnello (Ap 6,16). Lo so che è un po’ ardito, ma mi piace pensare che l’Agnello, figura di Gesù crocifisso e risorto, condivide le fatiche di chi si impegna, per insegnarci a condividere il suo sguardo appassionato sul mondo, compreso il suo rifiuto non certo dell’umanità ma di tutto ciò che non va, da cui non esita a prendere le distanze (l’ira, orghè).

E così capita di ascoltare da queste voci che la marea si è diffusa perché ci ha trovati impreparati, non solo per la mancanza di un piano o per alcuni difetti procedurali, ma perché ha sbaragliato dighe rese già fragili e traballanti dai limiti consolidati del nostro sistema sociale:

  • Troppe volte il denaro e la produzione vengono fatti valere più delle persone. Quando si è capito che il focolaio non era uno solo, ma andavano chiusi altri centri urbani e produttivi, ciò è stato troppo a lungo ostacolato da reti di interessi economici variamente rappresentati.
  • Anche da noi vige il male italico del familismo amorale: gruppi sociali ristretti e porzioni di classe dirigente non esitano a fare quadrato per promuovere interessi di parte, ma anche preconcetti che non vengono messi al vaglio dell’etica né della verifica scientifica. Quando in diversi organismi dirigenti e in diversi ospedali si cominciava a capire ciò che era ragionevole fare (ad esempio l’uso di banali mascherine anche nei contatti tra gli operatori), i decisori si sono talvolta stretti attorno alla decisione di ‘evitare di creare allarmismi’ o ‘accettare il male minore perché di più non si può fare’, tacitando i pochi che esprimevano dissenso. Le conseguenze si sono viste nel corso delle settimane successive.
  • Da tempo si preferisce sostituire l’efficacia con l’efficienza come criterio di scelta strategica. Per contenere o ridurre la spesa di ciascun ‘centro di costo’ si sono messi in competizione tra loro ospedali e singoli reparti, remunerando le strutture sulla base di pacchetti di intervento che sono proporzionali alla medicalizzazione della salute. Gli ospedali pubblici hanno dovuto stare al passo con l’avanzata del settore privato, con un piccolo accorgimento: i servizi dovevano migliorare riducendo personale e posti letto, o nel migliore dei casi procedere ‘isorisorse’. Il sistema della prevenzione è stato derubricato ad appendice dell’ospedale stesso, lasciando sguarnito il territorio.
  • La genuina comunicazione, che può essere sostenuta e valorizzata dalla tecnologia, rischia di essere sostituita da un sistema complesso di promozione di identità individuali. Quando mancano le possibilità di entrare in una stanza di ospedale o un malato non può parlare con chi gli vuole bene si capisce che lì c’è un desiderio di comunicazione. Si travisa invece il senso del comunicare quando i mezzi di comunicazione di massa vengono piegati all’interesse di parte per grandi manovre di autopromozione individuale, per non parlare della diffusione di impressioni fuorvianti o false che intrappolano persone inermi in bolle virtuali da cui faticano ad uscire.
  • Si parla di eroismo del personale sanitario, ma nessuno di noi ha scelto di impegnarsi per essere un eroe. Di più, occorrerebbe riconoscere che alla base dell’impegno di lavoratori a rischio negli ospedali, dal personale delle pulizie agli addetti all’ingegneria clinica, dai volontari a chi si occupa della cura e dell’assistenza ai pazienti, c’è soprattutto un profondo senso della giustizia. Fare bene il proprio lavoro risponde ad una esigenza di giustizia degli affetti che è difficile da vivere in questi tempi, ma rimane coerente con la responsabilità che a loro modo condividono tutte le persone che vivono sulla Terra. Capisco che sia difficile, le radici e le implicazioni di questo discorso portano lontano, ma la storia del pensiero buono, sviluppatosi anche nella nostra città, ci ha attrezzati per camminare su questo difficile crinale, messi in guardia da facili romanticismi e formalismi, per educarci alla sensibilità per la giustizia, che in fondo coincide con l’agape, in ogni campo del vivere.

I problemi che emergono ogni giorno lasciano aperti interrogativi e campi d’azione che interpellano la nostra vita di oggi e possono farci sognare un mondo più bello da costruire insieme già da ora. Le sfide del futuro sono anch’esse davanti agli occhi: riusciremo a trovare la nostra via democratica per uscire da questa crisi? Come ne usciranno le professionalità più coinvolte? Ce la faremo a dare credibilità alle istituzioni? Saranno ancora in grado di riscoprire il loro ruolo e la responsabilità che rivestono, al di là delle logiche delle appartenenze, delle cooptazioni, dei facili consensi? Ce la faremo a mettere in discussione i paradigmi che bloccano le scienze che sono preposte a migliorare la nostra vita? In particolare, come la medicina sta addirittura sperimentando con l’utilizzo di immunomodulatori nella cura di una nuova malattia infettiva, ce la farà l’economia a praticare politiche espansive in tempo di crisi (un’onta per una certa scienza economica, l’unica via decente alla luce del buon senso, della storia e di qualsiasi dato empirico)? Ci ricorderemo per sempre quale grande dono è il senso del tatto e il gusto di starci vicini quando potremo tornare a stringerci la mano o ad abbracciarci o continueremo a darlo per scontato, preferendo una società dell’immagine e del virtuale? Ce la faremo a capire che non esistono solo diritti (o doveri) universali, ma c’è forse prima un senso della giustizia degli affetti che ci precede e alla cui scuola siamo tutti chiamati, perché ci salveremo solo valorizzando la responsabilità di ciascuno e non l’eroismo di alcuni?

Con questi dubbi e con altri ancora, ripartiremo. Certo, proveranno a dire che tutto deve e può tornare come prima. Ma permettetemi di dire che non sarà così, che molto deve cambiare, che le lezioni di questi mesi devono rimanere impresse nei nostri cuori e suscitare riflessioni. Come usciremo più umani da questi giorni tristi? Come usciremo dall’arca? Quale arcobaleno sceglieremo di contemplare? Su quali basi sceglieremo di riprendere quella collaborazione all’opera della creazione che è stata messa anche nelle nostre mani?

Di questo dovremmo interrogarci tutti. E i mezzi per farlo anche nella condivisione non mancano, basta organizzarli e presidiarli, tenerli vivi. Ecco, io temo di avere altro da fare ancora nelle prossime settimane. Ma chi ha tempo, chi è a casa, forse dovrebbe cominciare insieme a pensare al ‘dopoguerra’, come già hanno fatto i nostri nonni ben prima di quel mitico 25 aprile.

Ciò che non ci è concesso è parlare delle sovrastrutture tralasciando la struttura, separare le radici dei nostri valori e della nostra fede dal nostro sguardo sulla quotidianità, perdere per strada il coraggio per inerzia o timidezza, se ci sentiamo soli o ci manca il fiato davanti alla radicalità dei problemi.

Che non ci manchi l’orghè, l’ira…

Pensiamo al dopo, quindi, ma per favore pensiamoci in grande!

Un medico.
Da Azione Cattolica Milano, 22 Aprile 2020